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Francesco Marsico, Fondazione Me.S.S.In.A , Roma-Messina

Un primo commento, certamente banale, è il metodo che genera questo documento, vale a dire quello partecipativo, che non disdegna il confronto con gli esperti, ma che non ne rimane succube, nel tentativo di tenere insieme esperienze, saperi diffusi da queste generate e competenze specialistiche. Credo che sia un indicatore di vitalità dei soggetti sociali: se sono ancora in grado di riflettere, confrontarsi, lasciarsi interrogare dal contesto, rappresentano, ancora e davvero, riserve di capitale sociale per i territori.

Parimenti banale è il sottolineare come il documento di Up voglia costruire una analisi complessa del presente, che è un antidoto culturale a tutte le forme, spesso in voga, di semplificazione del contesto, premessa di ogni populismo sul piano politico e di ogni semplicismo solutori, incompatibile con una volontà di affrontare le sfide del presente non come adattamento opportunistico, ma a partire da una visione della realtà.

Detto questo mi limito a sottolineare alcuni aspetti che ritengo particolarmente condivisibili nell’analisi operata.

Sicuramente il dato di partenza è l’elemento qualificante di questa riflessione: se l’impresa sociale rappresenta davvero un valore non solo sul piano sociale, ma anche su quello economico, va costruita una strategia nazionale e locale, che ne consenta nel breve periodo la tenuta, e in prospettiva la sua crescita in quanto attore non sostituibile dello sviluppo locale del paese, sensibile più di altri alle dimensioni di coesione e di tutela ambientale.

In questo senso alcune incompiute della politica nazionale, tra queste la Riforma del Terzo Settore, possono essere degli elementi qualificanti di questa strategia, solo se completate normativamente e attuate politicamente. Il tema della amministrazione condivisa è centrale in questa direzione. La retorica circa la mera presenza delle norme su coprogettazione e co-programmazione nel Codice non basta più: serve iniziare a valutare il loro campo di applicazione effettivo, le difficoltà attuative, tutti i comportamenti omissivi od opportunistici che si possono generare. La norma è sempre un punto di partenza e non di arrivo: si deve lavorare intenzionalmente in una prospettiva di implementazione che veda come obiettivo non solo qualche bando in meno, ma – senza retorica – una repubblica sussidiaria, vale a dire capace di valorizzare tutti i soggetti del territorio, discriminando positivamente non solo il rispetto formale delle norme, ma chi produce valore sociale.

Ma se il Codice rimane incompleto, non ritrova una sua complessiva legittimazione, questo vettore di potenziale sviluppo rischia di rimanere al palo.

D’altro canto, il documento – con grande onestà – riconosce che il rapporto con la P.A. rimane centrale in termini di trasferimento di risorse e di sostenibilità del sistema, ponendosi alcune sfide di riconfigurazione di offerta di servizi e di costruzione di una nuova idea di territorialità.

Credo anche questo elemento di grande rilievo: una nuova idea di territorialità deve, forse, ricentrare l’impresa sociale sul suo essere già ora impresa, vale a dire soggetto economico portatore – effettivo e potenziale – di competenze gestionali ed operative, competenze spesso scarse per pezzi di mercato profit locale di piccole e medie dimensioni e con problemi di sostenibilità futura o – nel caso delle aziende familiari – di futuro in termini generazionali.

In altri termini una impresa sociale deve porsi la domanda se e in che modo possa agire – in forma singola o aggregata – a sostegno delle economie territoriali, per contribuire a creare cluster di economia civile, tali da evitare, ad esempio, la scomparsa di  piccole o medie aziende familiare che nei prossimi anni vedranno scomparire le generazioni che le hanno create, sostenere le esperienze di workers buyout rafforzandone le competenze gestionali (e in molte regioni italiane non sostenute da agenzie pubbliche dedicate). O allearsi con quelle realtà economiche si stanno ibridando in maniera non opportunistica, verso modelli non vocati alla massimizzazione del profitto. Rivendicando un ruolo non solo settoriale, pure allargato, nello sviluppo economico di questo paese.

In questo senso, condiviso da chi scrive, il documento osserva la crescita di movimenti orientati verso forme di democrazia economica, mutualità, cooperazione e orizzontalità. Operare in questa direzione vuol dire costruire cartelli territoriali capaci di superare comprensibili spinte competitive – all’interno di un universo di risorse scarse – o diffidenze rispetto a percorsi non sempre lineari dei diversi soggetti, per costruire coalizioni sociali capaci di immaginare politiche di sviluppo capaci di tenere insieme sviluppo, tutela ambientale e coesione sociale. Costruendo insieme pratiche realistiche di sviluppo sostenibile e di ecologia politica, perché – purtroppo – le minacce ambientali, sociali e internazionali non sono una prospettiva futura, ma uno scenario presente.

Carlo Borgomeo, Presidente dal 2009 al 2023 della Fondazione Con il Sud, Roma

Nel paragrafo “Investimenti ed investitori” alla voce Che cosa dobbiamo fare noi, mi pare che vi sia una lacuna, a mio avviso, piuttosto significativa. Bisogna lavorare perché le imprese sociali si aprano ad investitori istituzionali che sottoscrivano quote del capitale sociale, con il tradizionale meccanismo di equity. Questo rappresenta, per le imprese sociali un indiscutibile vantaggio: affronta il tema, importante, della loro sottopatrimonializzazione; le abitua a condividere le scelte gestionali con altri soggetti, contribuisce a farle uscire dal “recinto” che le vuole inevitabilmente condannate ad essere diverse dalle altre imprese.

La sola differenza con le altre imprese, oltre ai meccanismi di governance e di gestione delle risorse umane, deve essere la destinazione degli utili: tutto il resto non può essere differente. Quindi permanente ricerca della efficacia e dell’efficienza; continua attività di business planning, severe metodologie di audit; intelligente utilizzazione degli strumenti finanziari. Ovviamente questa prospettiva deve misurarsi con una oggettiva difficoltà ad intercettare investitori istituzionali, guidati, nella scelta degli investimenti, dal criterio dell’affidabilità e dei rendimenti attesi. Ma proprio sui rendimenti vale la pena di riflettere attentamente. Io penso, cioè, che vi sia spazio per investitori disposti ad “accontentarsi” di rendimenti sul capitale investito un po’ più bassi, a fronte di investimenti dichiaratamente orientati a sostenere imprese non “attente” ai temi della sostenibilità, ma esplicitamente impegnate in attività che declinano concretamente i principi della sostenibilità sociale ed ambientale. Come tutti possiamo vedere, ed ormai misurare, vi è una clamorosa corsa da parte di tutti i Fondi a dichiarare la compatibilità dei loro investimenti con i criteri ESG. Assistiamo spesso ad operazioni maldestre, di pura facciata: sembra che questo tema sia più all’interno delle politiche di comunicazione che dentro le strategie complessive.

Ma pur non sottovalutando questi fenomeni, va detto che essi, tuttavia, sono indicatori di una percezione e di una necessità nuova: individuare le operazioni di facciata, ma nel contempo seguire con attenzione e con disponibilità i tentativi più seri – e ce ne sono – di affrontare il tema. Ai più scettici voglio ricordare che solo 10 anni fa questi temi erano assolutamente fuori dalle strategie dei Fondi: il fatto che se ne occupino oggi è un dato da non sottovalutare. In questo quadro di riferimento, in forte evoluzione, va individuato un filone di estremo interesse per le imprese sociali: quello della finanza ad impatto. Non la finanza che è “attenta” ai temi della sostenibilità e, nel valutare gi investimenti, “tiene conto “il più possibile dei criteri ESG; ma una finanza che guarda direttamente all’impatto sociale ed ambientale. Non una infrastruttura o un’impresa che condizionano il piano degli investimenti ai criteri ESG; ma un’impresa che eroga servizi sociosanitari; o che si occupa del ciclo dei rifiuti; o che realizza impianti di energia rinnovabile; o che razionalizza i consumi idrici in agricoltura; o che concretizza ipotesi di economia circolare. Fare equity in queste imprese ha due tipi di difficoltà: i minori rendimenti attesi, ma anche la dimensione delle operazioni che sono molto più piccole rispetto ai “tagli” tradizionali degli investimenti dei Fondi. Difficoltà da tener presenti, non da assumere come insuperabili. Ed a questo riguardo, per confermare che la strada è percorribile, voglio citare l’esempio del Fondo Social Impact, gestito dalla SGR Sefea Impact, regolarmente riconosciuta dalla Banca d’Italia. I Fondo è stato rilanciato dalla Fondazione Con il Sud che ha sottoscritto 10 milioni di capitale. Ad essa si sono aggiunte banche (Intesa e Biper), 8 fondazioni di origine bancaria, altre Fondazioni, una cassa di previdenza, fondi mutualistici, fino ad arrivare a 40 milioni.

La SGR è posseduta al 98% da soggetti non profit (altra straordinaria innovazione). Sefea Impact ha deliberato l’ingresso nel capitale sociale di una dozzina di imprese (cooperative ed imprese sociali, piccole imprese operanti nel settore della sostenibilità ambientale). Con ogni probabilità alla SGR verrà affidata la gestione di un nuovo Fondo ad impatto. Questa è una strada da percorrere: e, progressivamente, quando si potranno giudicare i risultati di questa operazione, per adesso assolutamente incoraggianti, sarà possibile aumentare la platea degli investitori e far passare il principio che un investitore può investire in Fondi che hanno rendimenti leggermente minori ma che sono dichiaratamente mission related. E’ il caso delle Fondazioni e delle Casse di Previdenza.
La seconda riflessione è certamente condizionata dalla mia esperienza alla Fondazione Con il Sud. In quattordici anni ho visto soggetti e percorsi che hanno consolidato in me due convinzioni. La prima è che il “sociale” viene prima dell’economico. Chi fa lavoro sociale non solo risponde ad esigenze e bisogni, non solo accoglie ed include soggetti fragili, non solo riconosce diritti di cittadinanza clamorosamente negati: chi lavora nel sociale accumula capitale sociale e, quindi, diventa un attore dello sviluppo, anche economico, dei territori: questo vale molto al Sud, dove è manifesto l’errore di politiche tutte quantitative che hanno sottovalutato gli interventi nel sociale; ma vale un po’ anche al Nord. La seconda è che bisogna, finalmente, cambiare registro sul welfare. Senza mezzi termini sostengo la tesi che è finito il tempo in cui la battaglia per il Welfare era difenderne il carattere universalistico e lottare perché non mancassero le risorse per alimentare l’offerta pubblica. E’ finita. Il Terzo settore non è più comprimario, partner aggiunto, dedicato ad interventi specialistici o a innovazioni che poi “benevolmente” lo Stato incorpora. No. Il Terzo settore è un partner paritario, capace di gestire, anche interventi complessi, come dimostra il caso, emblematico, del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile (Per adesso 450 milioni erogati per progetti, a guida di soggetti del Terzo Settore, che coinvolgono più di mezzo milione di minori). Perciò avanti con la coprogrammazione e con la coprogettazione (attenti sempre a che non siano modalità “comode” per l’assessore di turno). Ma è tempo di rivendicare, per il Terzo settore, il ruolo di gestore delle politiche e degli interventi. Ormai i casi in cui le cooperative sociali dimostrano di essere più efficaci e più efficienti del pubblico sono sotto gli occhi di tutti: orientamento al lavoro dei detenuti con gli effetti sulla recidiva; centri di prevenzione della violenza sulle donne; assistenza domiciliare agli anziani; inclusione di disabili psichici: l’elenco potrebbe continuare a lungo, molto a lungo.
Per questi motivi credo che sia indispensabile una riflessione sull’impresa sociale come snodo fondamentale che trasforma e valorizza la filantropia ed il dono in leve per il cambiamento; che certifica una dimensione in cui chi fa lavoro sociale non è chiamato a contenere e mitigare i guasti del modello di sviluppo, ma a cambiarlo; che diventa una “istituzione della Comunità.” In una parola il Terzo settore che diventa soggetto politico tanto più forte perché invocando il cambiamento, lo pratica, spesso inconsapevolmente.
Ovviamente la prima questione è che il Terzo settore si percepisca come soggetto politico. Percorso molto difficile, ma in atto tra contraddizioni ed accelerazioni. E poi vi è da animare, su questo tema, il dibattito politico che sul welfare registra ancora posizioni, anche a sinistra, ormai datate.

PER UNA POLITICA INDUSTRIALE DELL’IMPRENDITORIA SOCIALE

DOCUMENTO PROGRAMMATICO SULLE STRATEGIE DELLE IMPRESE SOCIALI ADERENTI ALLA RETE UP UMANAPERSONE

Il documento raccoglie il confronto tra le Imprese sociali socie della rete UP Umanapersone sugli scenari e sulle strategie di impresa sollecitato dai profondi cambiamenti in atto. Riprende e sintetizza le riflessioni condivise nelle Assemblee svoltesi tra il 2021 e il 2023, nonché la discussione sviluppata tra novembre 2022 e gennaio 2023 insieme dai Consigli di Amministrazione e/o altri organi delle Imprese socie.

Un ringraziamento particolare va ad Antonio Chelli (Presidente Fimiv – Legacoop), Flavio Delbono (Un. Bologna e Direttore Master in Economia della Cooperazione), Giorgio Fiorentini (Docente senior Cergas Bocconi Milano, esperto in imprese sociali), Elena Gori (Un. di Firenze – Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa – e Un. di Bolzano) e Gianfranco Marocchi (Co-Direttore di Impresa sociale e Vice-Direttore di Welforum) per le sollecitazioni offerte nel percorso che ha portato alla realizzazione di questa riflessione collettiva.

 

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La dimensione internazionale dell’amministrazione condivisa

In tutta Europa, il settore del welfare sta attraversando una fase di profonda riorganizzazione legata alla pandemia, ma anche ai cambiamenti socio-demografici e alle sfide poste dalla transizione ecologica e energetica. In risposta all’esigenza di riorganizzazione del welfare, la co-creazione sta diventando un principio centrale per creare servizi sempre più allineati con i bisogni dei cittadini e con la domanda di efficienza nel settore. Il coinvolgimento dei cittadini consente inoltre di mobilitare, canalizzare e integrare risorse nella società civile, contribuendo allo sviluppo e alla coesione locale. 

I fenomeni partecipativi ed i processi di costruzione delle politiche pubbliche che coinvolgano i cittadini e le formazioni sociali in cui questi si riuniscono, tendono ad assumere le forme più variegate, al punto che gli istituti dell’amministrazione condivisa, così come recentemente delineati dalla giurisprudenza costituzionale italiana, sembrano costituire un unicum a livello internazionale.

Data la necessità di declinare il progetto “Co-creare il nuovo welfare: regole, strumenti, pratiche” necessariamente in funzione del contesto di riferimento, ogni paese partecipante ha messo a punto e sta sperimentando percorsi formativi del tutto peculiari. Ciò nondimeno, al netto delle diversità che connotano ogni paese, il progetto può rappresentare un’interessante occasione di scambio e confronto anche in ordine a eventuali pratiche virtuose e a soluzioni che possano porsi sul solco della tradizionale italiana e che risultino astrattamente compatibili con il quadro normativo di riferimento.

E’ anche su questo fronte che la Rete UP intende lavorare nei prossimi mesi.

Tornando agli obiettivi che i singoli partner del progetto intendono con esso raggiungere, vi proponiamo qui di seguito una serie di link di presentazione:

Università di Lione1 (Francia): https://www.youtube.com/watch?v=tg_85VGsk0g

Università di Coventry (UK): https://www.youtube.com/watch?v=Or0CN86uNzc

UCL (Danimarca): https://www.youtube.com/watch?v=-Ciee1LiFwo

Università del Minho (Portogallo): https://www.youtube.com/watch?v=LYouafqQSbQ

[è possibile vedere i video con sottotitoli in italiano usando le impostazioni di YouTube]

Feedback sul primo modulo del corso “co-creare il nuovo welfare: regole, strumenti, pratiche”

Per entrare nel vivo di questo percorso formativo, che è attualmente in corso e che prevede lo svolgimento di ulteriori due moduli a partire dal prossimo mese di settembre, vi proponiamo qui di seguito alcuni feedback lasciati dagli stessi partecipanti.

Questi riscontri sono molto importanti in quanto la proposta progettuale prevede lo svolgimento di un secondo ciclo formativo, da svolgersi nel corso del 2024 e che, proprio in ottica di miglioramento ciclico, potrà in questo modo essere perfezionato e consolidato – con un nuovo e diverso gruppo di iscritti – al fine di essere poi messo a sistema nelle piattaforme formative a disposizione dei partner di progetto.

Quali sono le cose più importanti che hai imparato nelle sessioni di formazione?

  • avere una visione distaccata delle problematiche così da poterle inquadrare meglio; ogni evento può essere visto da vari punti di vista e per questo può completamente cambiarne la visione
  • Lo stimolo che dà il fare gruppo, il senso di condivisione, il fatto di mettersi in gioco
  • strumenti e tecniche nuove per co-creare in gruppo ma anche idee per auto-valutare il proprio lavoro individuale
  • stereotipi e pregiudizi che offuscano il lavoro di squadra, possibilità di vedere le cose da angolature diverse

 

Hai imparato qualcosa di inaspettato?

  • Capacità di creare gruppo e sospensione del giudizio
  • Ho scoperto nuovi elementi della facilitazione visuale, conosciuto meglio alcuni colleghi e anche certi aspetti di me

 

Utilizzerai ciò che hai imparato dalle sessioni di formazione nel tuo lavoro quotidiano?

  • Mettendo in pratica alcune tecniche di auto-valutazione
  • Cercherò di metterle in pratica nel lavoro in gruppo tra colleghi e di promuoverle nella dirigenza del settore pubblico con cui mi relaziono.
  • Utilizzerò subito alcune tecniche di facilitazione di un gruppo orientato alla co-creazione

 

Cosa ti è piaciuto maggiormente delle sessioni?

  • la possibilità di fare esercizi pratici e alternanza fra teoria e pratica
  • La capacità di coinvolgimento dei partecipanti
  • Mi è piaciuta l’interazione continua e il coinvolgimento costante di noi partecipanti
  • Perfetta adeguatezza all’obiettivo del corso; creatività, flessibilità e problem solving delle formatrici; partecipare insieme ad alcuni miei colleghi
  • La partecipazione dei presenti alla lezione collettiva e ai lavori di gruppo

 

Cosa pensi si possa migliorare?

  • Favorire la partecipazione di una più ampia pluralità di soggetti pubblici e privati dei settori di riferimento nella diversità tra ruoli e mansioni

Progetto Erasmus +: un’opportunità di sperimentare pratiche di co-progettazione

Si è da poco concluso il primo modulo del corso “Co-creare il nuovo welfare: regole, strumenti, pratiche”, organizzato dalla cooperativa sociale LeGO, in collaborazione con Umana Persone all’interno del progetto Co-Creating Welbeing, finanziato dal programma Erasmus+, e promosso da una rete di università europee (UCL di Odense, Coventry University, Universidade do Minho di Braga e Université Lyon 1 Claude Bernard) insieme a LeGO.

Il modulo ha approfondito alcuni elementi ritenuti essenziali per la costruzione dei percorsi di co-creazione:

  • Il contesto nel quale la co-creazione avviene accoglie le idee collettive in un’interazione aperta, leale e orizzontale tra i vari soggetti che partecipano al percorso progettuale.
  • La qualità del processo decisionale aumenta laddove gli attori agiscono con un approccio place-based, inteso come volàno per co-costruire e generare sui territori, percorsi di impatto sociale e trasformativi.
  • Nella fase di raccolta e sistematizzazione degli input emergenti dal territorio per la costruzione di nuove idee progettuali, si rende necessario l’ascolto attivo come strumento di conduzione dell’analisi dei bisogni e delle opportunità, dei fattori di rischio e della raccolta delle prassi e delle esperienze di rilievo per una co-progettazione che si proponga effettivamente di produrre un cambiamento nel contesto di riferimento.

L’obiettivo del percorso è offrire ai partecipanti un’esperienza attiva e trasformativa in grado di sostenere un cambiamento culturale autentico nelle organizzazioni del Welfare, nel passaggio da processi verticali di programmazione e progettazione di servizi a processi di co-creazione.

In questa prima fase ampio spazio è stato dedicato ad osservare e sperimentare le dinamiche dei gruppi attraverso il disvelamento delle tecniche di facilitazione, da quella visuale alle domande generative, anche nella dimensione del gioco e della ludicità. In questo modo si è cercato di favorire, da una parte, l’auto-riflessione sulle proprie costruzioni interpretative dei processi sociali in cui è coinvolti e del proprio ruolo all’interno di essi e, dall’altra, l’esercizio della creatività al centro dell’intelligenza collettiva attraverso la quale si individuano soluzioni innovative a problemi condivisi.

Il modulo ha inoltre affrontato la recente evoluzione legislativa in Italia sulle modalità condivise di programmazione, progettazione e gestione all’interno dei servizi sociali e ha rappresentato i profili di incertezze e le criticità che tuttora permangono.