Carlo Borgomeo, Presidente dal 2009 al 2023 della Fondazione Con il Sud, Roma

Nel paragrafo “Investimenti ed investitori” alla voce Che cosa dobbiamo fare noi, mi pare che vi sia una lacuna, a mio avviso, piuttosto significativa. Bisogna lavorare perché le imprese sociali si aprano ad investitori istituzionali che sottoscrivano quote del capitale sociale, con il tradizionale meccanismo di equity. Questo rappresenta, per le imprese sociali un indiscutibile vantaggio: affronta il tema, importante, della loro sottopatrimonializzazione; le abitua a condividere le scelte gestionali con altri soggetti, contribuisce a farle uscire dal “recinto” che le vuole inevitabilmente condannate ad essere diverse dalle altre imprese.

La sola differenza con le altre imprese, oltre ai meccanismi di governance e di gestione delle risorse umane, deve essere la destinazione degli utili: tutto il resto non può essere differente. Quindi permanente ricerca della efficacia e dell’efficienza; continua attività di business planning, severe metodologie di audit; intelligente utilizzazione degli strumenti finanziari. Ovviamente questa prospettiva deve misurarsi con una oggettiva difficoltà ad intercettare investitori istituzionali, guidati, nella scelta degli investimenti, dal criterio dell’affidabilità e dei rendimenti attesi. Ma proprio sui rendimenti vale la pena di riflettere attentamente. Io penso, cioè, che vi sia spazio per investitori disposti ad “accontentarsi” di rendimenti sul capitale investito un po’ più bassi, a fronte di investimenti dichiaratamente orientati a sostenere imprese non “attente” ai temi della sostenibilità, ma esplicitamente impegnate in attività che declinano concretamente i principi della sostenibilità sociale ed ambientale. Come tutti possiamo vedere, ed ormai misurare, vi è una clamorosa corsa da parte di tutti i Fondi a dichiarare la compatibilità dei loro investimenti con i criteri ESG. Assistiamo spesso ad operazioni maldestre, di pura facciata: sembra che questo tema sia più all’interno delle politiche di comunicazione che dentro le strategie complessive.

Ma pur non sottovalutando questi fenomeni, va detto che essi, tuttavia, sono indicatori di una percezione e di una necessità nuova: individuare le operazioni di facciata, ma nel contempo seguire con attenzione e con disponibilità i tentativi più seri – e ce ne sono – di affrontare il tema. Ai più scettici voglio ricordare che solo 10 anni fa questi temi erano assolutamente fuori dalle strategie dei Fondi: il fatto che se ne occupino oggi è un dato da non sottovalutare. In questo quadro di riferimento, in forte evoluzione, va individuato un filone di estremo interesse per le imprese sociali: quello della finanza ad impatto. Non la finanza che è “attenta” ai temi della sostenibilità e, nel valutare gi investimenti, “tiene conto “il più possibile dei criteri ESG; ma una finanza che guarda direttamente all’impatto sociale ed ambientale. Non una infrastruttura o un’impresa che condizionano il piano degli investimenti ai criteri ESG; ma un’impresa che eroga servizi sociosanitari; o che si occupa del ciclo dei rifiuti; o che realizza impianti di energia rinnovabile; o che razionalizza i consumi idrici in agricoltura; o che concretizza ipotesi di economia circolare. Fare equity in queste imprese ha due tipi di difficoltà: i minori rendimenti attesi, ma anche la dimensione delle operazioni che sono molto più piccole rispetto ai “tagli” tradizionali degli investimenti dei Fondi. Difficoltà da tener presenti, non da assumere come insuperabili. Ed a questo riguardo, per confermare che la strada è percorribile, voglio citare l’esempio del Fondo Social Impact, gestito dalla SGR Sefea Impact, regolarmente riconosciuta dalla Banca d’Italia. I Fondo è stato rilanciato dalla Fondazione Con il Sud che ha sottoscritto 10 milioni di capitale. Ad essa si sono aggiunte banche (Intesa e Biper), 8 fondazioni di origine bancaria, altre Fondazioni, una cassa di previdenza, fondi mutualistici, fino ad arrivare a 40 milioni.

La SGR è posseduta al 98% da soggetti non profit (altra straordinaria innovazione). Sefea Impact ha deliberato l’ingresso nel capitale sociale di una dozzina di imprese (cooperative ed imprese sociali, piccole imprese operanti nel settore della sostenibilità ambientale). Con ogni probabilità alla SGR verrà affidata la gestione di un nuovo Fondo ad impatto. Questa è una strada da percorrere: e, progressivamente, quando si potranno giudicare i risultati di questa operazione, per adesso assolutamente incoraggianti, sarà possibile aumentare la platea degli investitori e far passare il principio che un investitore può investire in Fondi che hanno rendimenti leggermente minori ma che sono dichiaratamente mission related. E’ il caso delle Fondazioni e delle Casse di Previdenza.
La seconda riflessione è certamente condizionata dalla mia esperienza alla Fondazione Con il Sud. In quattordici anni ho visto soggetti e percorsi che hanno consolidato in me due convinzioni. La prima è che il “sociale” viene prima dell’economico. Chi fa lavoro sociale non solo risponde ad esigenze e bisogni, non solo accoglie ed include soggetti fragili, non solo riconosce diritti di cittadinanza clamorosamente negati: chi lavora nel sociale accumula capitale sociale e, quindi, diventa un attore dello sviluppo, anche economico, dei territori: questo vale molto al Sud, dove è manifesto l’errore di politiche tutte quantitative che hanno sottovalutato gli interventi nel sociale; ma vale un po’ anche al Nord. La seconda è che bisogna, finalmente, cambiare registro sul welfare. Senza mezzi termini sostengo la tesi che è finito il tempo in cui la battaglia per il Welfare era difenderne il carattere universalistico e lottare perché non mancassero le risorse per alimentare l’offerta pubblica. E’ finita. Il Terzo settore non è più comprimario, partner aggiunto, dedicato ad interventi specialistici o a innovazioni che poi “benevolmente” lo Stato incorpora. No. Il Terzo settore è un partner paritario, capace di gestire, anche interventi complessi, come dimostra il caso, emblematico, del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile (Per adesso 450 milioni erogati per progetti, a guida di soggetti del Terzo Settore, che coinvolgono più di mezzo milione di minori). Perciò avanti con la coprogrammazione e con la coprogettazione (attenti sempre a che non siano modalità “comode” per l’assessore di turno). Ma è tempo di rivendicare, per il Terzo settore, il ruolo di gestore delle politiche e degli interventi. Ormai i casi in cui le cooperative sociali dimostrano di essere più efficaci e più efficienti del pubblico sono sotto gli occhi di tutti: orientamento al lavoro dei detenuti con gli effetti sulla recidiva; centri di prevenzione della violenza sulle donne; assistenza domiciliare agli anziani; inclusione di disabili psichici: l’elenco potrebbe continuare a lungo, molto a lungo.
Per questi motivi credo che sia indispensabile una riflessione sull’impresa sociale come snodo fondamentale che trasforma e valorizza la filantropia ed il dono in leve per il cambiamento; che certifica una dimensione in cui chi fa lavoro sociale non è chiamato a contenere e mitigare i guasti del modello di sviluppo, ma a cambiarlo; che diventa una “istituzione della Comunità.” In una parola il Terzo settore che diventa soggetto politico tanto più forte perché invocando il cambiamento, lo pratica, spesso inconsapevolmente.
Ovviamente la prima questione è che il Terzo settore si percepisca come soggetto politico. Percorso molto difficile, ma in atto tra contraddizioni ed accelerazioni. E poi vi è da animare, su questo tema, il dibattito politico che sul welfare registra ancora posizioni, anche a sinistra, ormai datate.