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Marco Peruzzi, Presidente consorzio Co&So, Empoli

Il documento programmatico sulle strategie delle imprese sociali aderenti alla rete UP Umanapersone ha il pregio di aprire una riflessione sul nostro presente e sul nostro futuro, provando a smuovere le acque sempre troppo ferme e troppo uguali a sé stesse. C’è un’urgente necessità di andare oltre il quotidiano nell’analisi, non solo per orientare le proprie azioni imprenditoriali, ma soprattutto per non smarrire il senso della nostra esistenza, senso che dovrebbe primariamente essere ricercato nella capacità delle nostre imprese di generare cambiamento, di migliorare il contesto in cui si trovano ad agire.

Certo, il contesto in cui siamo immersi, è sempre più mutevole, ma nella sua mutevolezza persegue da tempo un indirizzo definito e quindi per certi versi anche scontato, al netto di eventi epocali come la pandemia, peraltro prevista negli anni precedenti da più parti. Basti ricordare che di fatto il nostro agire è quasi sempre un tentativo di rimediare agli effetti collaterali (o desiderati) del modello economico neoliberista, quindi elementi come il cambiamento climatico, le migrazioni, o dal punto di vista economico l’aumento del debito pubblico e l’impoverimento degli stati, sono di fatto conseguenza di un modello conosciuto e studiato, accettato da buona parte di noi, come condizione sine qua non. Anche i nostri territori e, più in generale, il mondo industrializzato vivono problemi comuni e crescenti, non solo correlati all’invecchiamento della popolazione e alla bassa natalità, ma più profondamente all’atomizzazione sociale da cui derivano solitudine, fragilità delle reti sociali, solo in minima parte sostituite dalle reti del “web”.

Davanti a questa complessità e a questa deriva o “progresso” (che forse porterà ad un nuovo ordine o ad un disordine calcolato), le nostre imprese cooperative evidenziano naturalmente dei limiti, soprattutto se interpretano la propria funzione come demandata da uno Stato sempre più povero e sempre meno capace di visione. Questa funzione di intermediazione ha avuto per molto tempo il vantaggio della sicurezza di avere alle spalle un committente solido, il più solido, ma si è poi rivelata sempre più come costrizione.

Provare ad essere anche altro e ad esistere anche con altre funzioni, comporta il superamento di alcune questioni che ci portiamo dietro da tempo.

  • Il rapporto con i territori e le comunità

Nella nostra funzione intermediativa, ovvero di facenti funzione per conto della pubblica amministrazione, il rapporto con i potenziali destinatari è spesso legato esclusivamente alla prestazione che eroghiamo, senza un reale riconoscimento del valore ulteriore dell’impresa che lo eroga e senza la possibilità di trarre da quella prestazione informazioni utili per rivedere complessivamente quel servizio. La titolarità è pubblica, i dati sono di proprietà dell’ente pubblico, il servizio ha dei riferimenti rigidi, in cui lo spazio di azione è quello organizzativo, di gestione delle risorse umane. Penso che il senso della nostra esistenza passi in buona parte da un rinnovato rapporto con le persone che abitano un territorio, da un ascolto dei reali bisogni e dalla co-costruzione di progetti che possano veder coinvolti molteplici attori. Se da una parte siamo soggetti sostituibili da una gara di appalto, o comunque vincolati a prestazioni nel solco delle prestazioni pubbliche, dall’altro ritroveremmo una dimensione imprenditoriale vera, che è fatta di analisi del contesto e della domanda di servizi, di reperimento di risorse, e di costruzione di risposte specifiche, da modificare nel corso del tempo. In questa funzione potremmo finalmente inserire la valutazione di quel che facciamo, un monitoraggio vero dei risultati e degli effetti del nostro agire, che ci dicano dove e come migliorare, per poter avere anche nei confronti dell’ente pubblico un rapporto paritetico, come portatori di competenze, ma anche di analisi e di dati.

  • La co-programmazione

E’ sicuramente un orizzonte auspicabile e necessario quello in cui tutti gli enti pubblici attivino la co-programmazione per ridefinire le priorità di un territorio, insieme agli attori di quel territorio. Al di là della crescita culturale e tecnica della macchina statale nelle sue diverse declinazioni, è necessaria anche la crescita culturale delle nostre imprese per partecipare ad un processo in cui è richiesto di andare oltre quel che si fa. Programmare significa avere un’idea precisa del contesto, in termini di dati e analisi, in termini di cambiamenti economici e demografici, e di avere inoltre una visione di quel che si potrebbe fare, di quel che si potrebbe proporre per rispondere a quel contesto. La nostra natura, prevalentemente intermediativa o erogativa, non ci permette sempre di spingerci oltre il presente, perché la nostra organizzazione è improntata alla gestione e quindi al massimo possiamo elencare le prestazioni svolte. Conoscenza e riflessività sono aspetti che dovrebbero permeare le nostre imprese ad ogni livello: conoscenza delle cose, delle norme, del contesto, e riflessività sul perché le cose funzionano o non funzionano. Se vogliamo avere una funzione di promotori di politiche, dobbiamo dimostrare di conoscere non solo il presente, ma anche ipotizzare un futuro.

  • La dimensione dell’impresa e la partecipazione dei soci

Le imprese cooperative prefigurano alti livelli di democraticità interna e un interesse verso la promozione umana e verso le comunità. In linea teorica si tratta di imprese ad alto valore aggiunto, in cui la proprietà diffusa ed eterogenea è garanzia di vitalità e resilienza. Dall’altra parte, la strutturazione delle imprese, data dal crescente numero di servizi gestiti, le ha rese realtà multilivello, in cui la base sociale non rappresenta più il totale dei dipendenti (anzi a volte è minoritaria) e la dirigenza non può o non riesce a rappresentare una base sociale sempre più distante. La mobilità interna è per certi versi sfavorita anche dalla natura dei diversi livelli; i dipendenti, ovvero le figure reperite e assunte, vedono quel tipo di posizione come una tappa di una futura evoluzione al di fuori dell’organizzazione; i soci permangono nell’organizzazione in una posizione immutabile, ad erogare la prestazione per cui sono stati assunti, ma spesso senza la reale cognizione del tutto che li circonda e senza quindi spingersi a desiderare un ruolo di maggiore responsabilità. Oltre a tutto ciò dobbiamo chiederci se per le sfide che dovremo affrontare, le imprese a proprietà diffusa, ma con basso rischio imprenditoriale, siano il veicolo societario migliore o siano invece utili soprattutto nella gestione ordinaria. Quando saranno necessari investimenti e ricapitalizzazioni con un crescente rischio per i soci, è lo strumento cooperativo il migliore possibile?

Il rapporto tra crescita della dimensione cooperativa e livello di partecipazione dei soci è spesso inversamente proporzionale. Sicuramente esistono modi e metodi perché ciò non avvenga. Se da una parte è scontato agire sul livello dimensionale, ovvero non superare un certo numero di dipendenti e poi di soci, dall’altra alzare il valore economico delle quote sociali potrebbe rivelarsi un elemento che va a scardinare la volontà di incidere nelle scelte di un’impresa in cui il rischio diventa tangibile; guardando alle nostre imprese, quanti soci sarebbero disponibili a versare diecimila euro di quota sociale? Quanti di noi lo farebbero?

In conclusione, il senso di tutte queste parole, di queste in alcuni casi provocazioni, sta nel ripensarci, nel non dare per scontato niente, nel non aspettarci che qualcuno faccia qualcosa per noi (l’ente pubblico ad esempio), ma di sentirsi realmente imprese, non nel senso strettamente economico (costi – ricavi), ma nel senso del valore imprenditoriale di ciò che facciamo, provando ad essere protagonisti del nostro futuro, che per la nostra natura, è anche il futuro delle nostre comunità.

Francesco Marsico, Fondazione Me.S.S.In.A , Roma-Messina

Un primo commento, certamente banale, è il metodo che genera questo documento, vale a dire quello partecipativo, che non disdegna il confronto con gli esperti, ma che non ne rimane succube, nel tentativo di tenere insieme esperienze, saperi diffusi da queste generate e competenze specialistiche. Credo che sia un indicatore di vitalità dei soggetti sociali: se sono ancora in grado di riflettere, confrontarsi, lasciarsi interrogare dal contesto, rappresentano, ancora e davvero, riserve di capitale sociale per i territori.

Parimenti banale è il sottolineare come il documento di Up voglia costruire una analisi complessa del presente, che è un antidoto culturale a tutte le forme, spesso in voga, di semplificazione del contesto, premessa di ogni populismo sul piano politico e di ogni semplicismo solutori, incompatibile con una volontà di affrontare le sfide del presente non come adattamento opportunistico, ma a partire da una visione della realtà.

Detto questo mi limito a sottolineare alcuni aspetti che ritengo particolarmente condivisibili nell’analisi operata.

Sicuramente il dato di partenza è l’elemento qualificante di questa riflessione: se l’impresa sociale rappresenta davvero un valore non solo sul piano sociale, ma anche su quello economico, va costruita una strategia nazionale e locale, che ne consenta nel breve periodo la tenuta, e in prospettiva la sua crescita in quanto attore non sostituibile dello sviluppo locale del paese, sensibile più di altri alle dimensioni di coesione e di tutela ambientale.

In questo senso alcune incompiute della politica nazionale, tra queste la Riforma del Terzo Settore, possono essere degli elementi qualificanti di questa strategia, solo se completate normativamente e attuate politicamente. Il tema della amministrazione condivisa è centrale in questa direzione. La retorica circa la mera presenza delle norme su coprogettazione e co-programmazione nel Codice non basta più: serve iniziare a valutare il loro campo di applicazione effettivo, le difficoltà attuative, tutti i comportamenti omissivi od opportunistici che si possono generare. La norma è sempre un punto di partenza e non di arrivo: si deve lavorare intenzionalmente in una prospettiva di implementazione che veda come obiettivo non solo qualche bando in meno, ma – senza retorica – una repubblica sussidiaria, vale a dire capace di valorizzare tutti i soggetti del territorio, discriminando positivamente non solo il rispetto formale delle norme, ma chi produce valore sociale.

Ma se il Codice rimane incompleto, non ritrova una sua complessiva legittimazione, questo vettore di potenziale sviluppo rischia di rimanere al palo.

D’altro canto, il documento – con grande onestà – riconosce che il rapporto con la P.A. rimane centrale in termini di trasferimento di risorse e di sostenibilità del sistema, ponendosi alcune sfide di riconfigurazione di offerta di servizi e di costruzione di una nuova idea di territorialità.

Credo anche questo elemento di grande rilievo: una nuova idea di territorialità deve, forse, ricentrare l’impresa sociale sul suo essere già ora impresa, vale a dire soggetto economico portatore – effettivo e potenziale – di competenze gestionali ed operative, competenze spesso scarse per pezzi di mercato profit locale di piccole e medie dimensioni e con problemi di sostenibilità futura o – nel caso delle aziende familiari – di futuro in termini generazionali.

In altri termini una impresa sociale deve porsi la domanda se e in che modo possa agire – in forma singola o aggregata – a sostegno delle economie territoriali, per contribuire a creare cluster di economia civile, tali da evitare, ad esempio, la scomparsa di  piccole o medie aziende familiare che nei prossimi anni vedranno scomparire le generazioni che le hanno create, sostenere le esperienze di workers buyout rafforzandone le competenze gestionali (e in molte regioni italiane non sostenute da agenzie pubbliche dedicate). O allearsi con quelle realtà economiche si stanno ibridando in maniera non opportunistica, verso modelli non vocati alla massimizzazione del profitto. Rivendicando un ruolo non solo settoriale, pure allargato, nello sviluppo economico di questo paese.

In questo senso, condiviso da chi scrive, il documento osserva la crescita di movimenti orientati verso forme di democrazia economica, mutualità, cooperazione e orizzontalità. Operare in questa direzione vuol dire costruire cartelli territoriali capaci di superare comprensibili spinte competitive – all’interno di un universo di risorse scarse – o diffidenze rispetto a percorsi non sempre lineari dei diversi soggetti, per costruire coalizioni sociali capaci di immaginare politiche di sviluppo capaci di tenere insieme sviluppo, tutela ambientale e coesione sociale. Costruendo insieme pratiche realistiche di sviluppo sostenibile e di ecologia politica, perché – purtroppo – le minacce ambientali, sociali e internazionali non sono una prospettiva futura, ma uno scenario presente.

Carlo Borgomeo, Presidente dal 2009 al 2023 della Fondazione Con il Sud, Roma

Nel paragrafo “Investimenti ed investitori” alla voce Che cosa dobbiamo fare noi, mi pare che vi sia una lacuna, a mio avviso, piuttosto significativa. Bisogna lavorare perché le imprese sociali si aprano ad investitori istituzionali che sottoscrivano quote del capitale sociale, con il tradizionale meccanismo di equity. Questo rappresenta, per le imprese sociali un indiscutibile vantaggio: affronta il tema, importante, della loro sottopatrimonializzazione; le abitua a condividere le scelte gestionali con altri soggetti, contribuisce a farle uscire dal “recinto” che le vuole inevitabilmente condannate ad essere diverse dalle altre imprese.

La sola differenza con le altre imprese, oltre ai meccanismi di governance e di gestione delle risorse umane, deve essere la destinazione degli utili: tutto il resto non può essere differente. Quindi permanente ricerca della efficacia e dell’efficienza; continua attività di business planning, severe metodologie di audit; intelligente utilizzazione degli strumenti finanziari. Ovviamente questa prospettiva deve misurarsi con una oggettiva difficoltà ad intercettare investitori istituzionali, guidati, nella scelta degli investimenti, dal criterio dell’affidabilità e dei rendimenti attesi. Ma proprio sui rendimenti vale la pena di riflettere attentamente. Io penso, cioè, che vi sia spazio per investitori disposti ad “accontentarsi” di rendimenti sul capitale investito un po’ più bassi, a fronte di investimenti dichiaratamente orientati a sostenere imprese non “attente” ai temi della sostenibilità, ma esplicitamente impegnate in attività che declinano concretamente i principi della sostenibilità sociale ed ambientale. Come tutti possiamo vedere, ed ormai misurare, vi è una clamorosa corsa da parte di tutti i Fondi a dichiarare la compatibilità dei loro investimenti con i criteri ESG. Assistiamo spesso ad operazioni maldestre, di pura facciata: sembra che questo tema sia più all’interno delle politiche di comunicazione che dentro le strategie complessive.

Ma pur non sottovalutando questi fenomeni, va detto che essi, tuttavia, sono indicatori di una percezione e di una necessità nuova: individuare le operazioni di facciata, ma nel contempo seguire con attenzione e con disponibilità i tentativi più seri – e ce ne sono – di affrontare il tema. Ai più scettici voglio ricordare che solo 10 anni fa questi temi erano assolutamente fuori dalle strategie dei Fondi: il fatto che se ne occupino oggi è un dato da non sottovalutare. In questo quadro di riferimento, in forte evoluzione, va individuato un filone di estremo interesse per le imprese sociali: quello della finanza ad impatto. Non la finanza che è “attenta” ai temi della sostenibilità e, nel valutare gi investimenti, “tiene conto “il più possibile dei criteri ESG; ma una finanza che guarda direttamente all’impatto sociale ed ambientale. Non una infrastruttura o un’impresa che condizionano il piano degli investimenti ai criteri ESG; ma un’impresa che eroga servizi sociosanitari; o che si occupa del ciclo dei rifiuti; o che realizza impianti di energia rinnovabile; o che razionalizza i consumi idrici in agricoltura; o che concretizza ipotesi di economia circolare. Fare equity in queste imprese ha due tipi di difficoltà: i minori rendimenti attesi, ma anche la dimensione delle operazioni che sono molto più piccole rispetto ai “tagli” tradizionali degli investimenti dei Fondi. Difficoltà da tener presenti, non da assumere come insuperabili. Ed a questo riguardo, per confermare che la strada è percorribile, voglio citare l’esempio del Fondo Social Impact, gestito dalla SGR Sefea Impact, regolarmente riconosciuta dalla Banca d’Italia. I Fondo è stato rilanciato dalla Fondazione Con il Sud che ha sottoscritto 10 milioni di capitale. Ad essa si sono aggiunte banche (Intesa e Biper), 8 fondazioni di origine bancaria, altre Fondazioni, una cassa di previdenza, fondi mutualistici, fino ad arrivare a 40 milioni.

La SGR è posseduta al 98% da soggetti non profit (altra straordinaria innovazione). Sefea Impact ha deliberato l’ingresso nel capitale sociale di una dozzina di imprese (cooperative ed imprese sociali, piccole imprese operanti nel settore della sostenibilità ambientale). Con ogni probabilità alla SGR verrà affidata la gestione di un nuovo Fondo ad impatto. Questa è una strada da percorrere: e, progressivamente, quando si potranno giudicare i risultati di questa operazione, per adesso assolutamente incoraggianti, sarà possibile aumentare la platea degli investitori e far passare il principio che un investitore può investire in Fondi che hanno rendimenti leggermente minori ma che sono dichiaratamente mission related. E’ il caso delle Fondazioni e delle Casse di Previdenza.
La seconda riflessione è certamente condizionata dalla mia esperienza alla Fondazione Con il Sud. In quattordici anni ho visto soggetti e percorsi che hanno consolidato in me due convinzioni. La prima è che il “sociale” viene prima dell’economico. Chi fa lavoro sociale non solo risponde ad esigenze e bisogni, non solo accoglie ed include soggetti fragili, non solo riconosce diritti di cittadinanza clamorosamente negati: chi lavora nel sociale accumula capitale sociale e, quindi, diventa un attore dello sviluppo, anche economico, dei territori: questo vale molto al Sud, dove è manifesto l’errore di politiche tutte quantitative che hanno sottovalutato gli interventi nel sociale; ma vale un po’ anche al Nord. La seconda è che bisogna, finalmente, cambiare registro sul welfare. Senza mezzi termini sostengo la tesi che è finito il tempo in cui la battaglia per il Welfare era difenderne il carattere universalistico e lottare perché non mancassero le risorse per alimentare l’offerta pubblica. E’ finita. Il Terzo settore non è più comprimario, partner aggiunto, dedicato ad interventi specialistici o a innovazioni che poi “benevolmente” lo Stato incorpora. No. Il Terzo settore è un partner paritario, capace di gestire, anche interventi complessi, come dimostra il caso, emblematico, del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile (Per adesso 450 milioni erogati per progetti, a guida di soggetti del Terzo Settore, che coinvolgono più di mezzo milione di minori). Perciò avanti con la coprogrammazione e con la coprogettazione (attenti sempre a che non siano modalità “comode” per l’assessore di turno). Ma è tempo di rivendicare, per il Terzo settore, il ruolo di gestore delle politiche e degli interventi. Ormai i casi in cui le cooperative sociali dimostrano di essere più efficaci e più efficienti del pubblico sono sotto gli occhi di tutti: orientamento al lavoro dei detenuti con gli effetti sulla recidiva; centri di prevenzione della violenza sulle donne; assistenza domiciliare agli anziani; inclusione di disabili psichici: l’elenco potrebbe continuare a lungo, molto a lungo.
Per questi motivi credo che sia indispensabile una riflessione sull’impresa sociale come snodo fondamentale che trasforma e valorizza la filantropia ed il dono in leve per il cambiamento; che certifica una dimensione in cui chi fa lavoro sociale non è chiamato a contenere e mitigare i guasti del modello di sviluppo, ma a cambiarlo; che diventa una “istituzione della Comunità.” In una parola il Terzo settore che diventa soggetto politico tanto più forte perché invocando il cambiamento, lo pratica, spesso inconsapevolmente.
Ovviamente la prima questione è che il Terzo settore si percepisca come soggetto politico. Percorso molto difficile, ma in atto tra contraddizioni ed accelerazioni. E poi vi è da animare, su questo tema, il dibattito politico che sul welfare registra ancora posizioni, anche a sinistra, ormai datate.