Linee Guida sui rapporti tra P.A. ed ETS: alcune riflessioni
Con DM n. 72 del 31 marzo 2021 sono state adottate le Linee Guida sul rapporto tra Pubbliche Amministrazioni ed Enti del Terzo settore (Trovate cliccando qui tutti i riferimenti). Dal punto di vista politico tale atto assume indubbiamente un significato molto forte. Due elementi in particolare meritano di essere segnalati. Il primo, riguarda il fatto che tali linee sono volte a supportare l’attuazione concreta degli istituti di cui all’art. 55 CTS, senza tuttavia che ciò fosse contemplato tra gli originari 24 decreti attuativi previsti per il solo Codice del Terzo Settore. Il secondo tiene conto della concatenazione di eventi che si sono succeduti nell’ultimo paio di anni. Ci riferiamo, in particolare, all’adozione da parte di ANAC delle Linee Guida contenenti “Indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali”, al parere su di esse emesso dal Consiglio di Stato (il tutto accaduto alla fine del 2019), alle sentenze n. 131 e 255 del 2020 adottate dalla Corte Costituzionale, e alle iniziative variamente sorte a livello regionale volte all’adozione di una legge regionale sulla co-programmazione e co-progettazione (prima fra tutte la L.r. 65/2020 Regione Toscana).
L’impressione generale è quella di un largo e ampio consenso rispetto agli istituti della co-programmazione e co-progettazione. Da un osservatorio più defilato, immerso nelle dinamiche in cui giornalmente gli operatori del Terzo settore si trovano ad operare, la sensazione è che non ci sia la stessa reattività nel dar gambe ad una riforma che – come qualcuno ha giustamente osservato – è giunta alla fase del diritto in azione.
A questa titubanza o disomogeneità applicativa le Linee Guida mirano ad offrire rimedio.
In quest’ottica sono due gli aspetti che a nostro parere potrebbero diventare critici all’atto della loro applicazione pratica. Il primo riguarda l’individuazione di criteri chiari, univoci ed omogenei a cui le P.A. possano far riferimento nell’orientare la loro scelta di attivare un rapporto collaborativo piuttosto che un rapporto basato sullo scambio di prestazioni reciproche. Si ricade in questo caso nell’ambito della discrezionalità amministrativa che per definizione deve, nel bilanciamento dei vari interessi in gioco, determinare la miglior soluzione per il perseguimento dell’interesse pubblico, rispettando i principi generali che regolano l’attività amministrativa. Ma muovendoci in un terreno ancora altamente instabile, in cui le oscillazioni interpretative e le diverse sensibilità, anche personali, rischiano di condizionare ancora significativamente le scelte della P.A., avrebbe potuto risultare di particolare utilità esplicitare i fattori di forza e di debolezza (dal punto di vista economico, procedimentale, organizzativo, legislativo, ecc…) degli istituti della amministrazione collaborativa, da un lato, e dell’appalto, dall’altro. Stante quindi la teorica distinzione delineata tra i due, ciò avrebbe potuto rendere maggiormente consapevoli le P.A. delle possibili ricadute applicative e quindi effettuare scelte più ponderate, grazie ad un bilanciamento di interessi realistico e basato su evidenze concrete. A tal proposito rammentiamo due significativi passaggi.
Il primo è tratto dal parere del Consiglio di Stato n. 1382/2918 i quale afferma: “…l’Amministrazione dovrà puntualmente indicare e documentare la ricorrenza, nella concreta vicenda, degli specifici profili che sostengono, motivano e giustificano il ricorso a procedure che tagliano fuori ex ante gli operatori economici tesi a perseguire un profitto. L’Amministrazione dovrà, in particolare, evidenziare la maggiore idoneità di tali procedure a soddisfare i bisogni latu sensu “sociali” ricorrenti nella fattispecie, alla luce dei principi di adeguatezza, proporzionalità ed efficacia ed in comparazione con gli esiti che verosimilmente produrrebbe l’alternativa del ricorso al mercato”.
La seconda è tratta invece dallo schema di Linee Guida sopra citate proposte da ANAC e poi ad essa restituite dal Consiglio di Stato. In particolare, si evidenzia come sia emersa effettivamente anche in quel caso “l’esigenza di determinare i profili caratterizzanti dei singoli istituti e di favorire l’individuazione di criteri univoci per l’esercizio delle scelte discrezionali delle stazioni appaltanti”. Il secondo aspetto da porre all’attenzione concerne la demarcazione del confine tra apporto economico che costituisce un corrispettivo e apporto economico che invece costituisce contributo. Questo aspetto è di fondamentale importanza, atteso che il dualismo onerosità-gratuità rappresenta uno dei fronti di maggior frizione tra Codice dei Contratti Pubblici e Codice del Terzo Settore.
Viene quindi da chiedersi se sia sufficiente qualificare come contributi ex art. 12 L. 241/’90 le risorse economiche trasferite in una procedura di co-progettazione, esclusivamente sulla base della natura giuridica della procedura e del rapporto di co-progettazione. Tecnicamente, infatti, si tratterebbe comunque di un trasferimento di denaro potenzialmente in grado di remunerare il destinatario per l’esecuzione del servizio o anche solo per parte dei fattori produttivi impiegati. Allora, se è vero che per escludere la natura di corrispettivo non basta collocarsi nell’ambito di una procedura di co-progettazione, perché il semplice conferimento di risorse pubbliche e private non esclude che una parte delle prime sia finalizzata a coprire anche solo in parte il costo del servizio, potrebbe essere utile prevedere indicazioni di maggior dettaglio sul rapporto che deve esserci tra risorse pubbliche e risorse private. Si dovrebbe in particolare verificare la concreta entità dell’apporto pubblico rispetto a quello privato, sia dal punto di vista quantitativo che dal punto di vista delle voci di costo coperte. Ipotizzando, infatti, che al privato sia richiesto di conferire un immobile di sua proprietà, ferma restando la relazione di stima sullo stesso, bisognerebbe poi controllare che il contributo pubblico non sia più alto o significativamente più alto rispetto al valore dell’immobile conferito, poiché altrimenti il contributo si trasformerebbe di fatto in un corrispettivo, eludendo la logica dello scambio di cui al Codice Appalti.
Un atro aspetto, legato a questa problematica del riconoscimento economico riguarda la partecipazione di un soggetto privato ai tavoli di co-progettazione, operazione di per sé non a costo zero, non remunerata perché non riconducibile alla gestione del servizio, bensì alle attività di amministrazione condivisa. Ora, il fatto che un ETS sia tale perché ha connaturato il fine di pubblica utilità, non dovrebbe giustificare la totale gratuità delle suddette attività, perché con l’ibridazione delle forme giuridiche a cui la riforma ha aperto la strada, nell’ambito del Terzo Settore ci sono molte imprese che in quanto tali devono effettuare scelte di allocazione di risorse condizionate dalle prospettive di remunerazione offerte. Tutto ciò per dire che sarebbe necessario rivedere a monte il concetto di onerosità, in modo da scongiurare il rischio che le procedure di co-progettazione finiscano per essere considerate non convenienti da molti ETS.
Gianna Vignani