Gianluca Salvatori, Segretario Generale di EURICSE e membro del GECES (Gruppo di esperti della Commissione Europea sull’economia sociale)
DAI MARGINI AL CENTRO: L’ECONOMIA SOCIALE E I COMPITI DELLE ISTITUZIONI E DELLE IMPRESE SOCIALI.
Ce ne parla Gianluca Salvatori.
Leggi l’articolo:
Pochi mesi ancora e l’attuale Commissione europea concluderà il suo mandato. È presto per prevedere l’esito delle prossime elezioni ma dopo i recenti risultati elettorali in Polonia, la formazione del nuovo governo spagnolo e considerata la situazione in Germania, dove il quadro politico non sembra più virare a favore delle forze a destra dei popolari, appare al momento probabile la riconferma dell’accordo tra i tre più grandi raggruppamenti della politica europea: popolari, socialisti e liberali.
La prospettiva di una continuità con la gestione von der Leyen sarebbe una buona notizia. Malgrado le enormi fragilità della governance europea – come di nuovo evidenzia in queste settimane l’impotenza dell’Europa sulla scena internazionale – l’attuale Commissione sarà comunque ricordata come una delle migliori di sempre. A contraddistinguerla, la consapevolezza di dover far fronte a grandi transizioni, anche rimettendo in discussione le politiche con cui l’Unione europea ha reagito alla grande recessione del 2008 e, soprattutto, alla crisi dell’area euro e del debito sovrano. Gli eventi hanno spinto le istituzioni di Bruxelles a guardare la realtà con schemi diversi dal passato, in più di un caso superando in lungimiranza i governi nazionali.
La Commissione uscente ha dovuto prendere atto dell’impatto negativo prodotto dalle politiche di austerity sulla tenuta sociale dell’Unione e ha dato voce alla necessità di percorrere strade nuove rispetto al tradizionale approccio basato su competizione, riduzione dei vincoli alle forze del mercato, riduzione del deficit e rigore fiscale. Per reagire ai rischi posti al progetto europeo dalla rinascita dei nazionalismi e dalla crescente ondata populista l’attenzione è tornata sul pilastro sociale, di cui si era persa traccia dai tempi di Jacques Delors. Su un fronte ciò si è tradotto in un rinnovato spazio per l’iniziativa pubblica, fondato sull’assunto che i fallimenti del mercato non sono rare eccezioni e che lo Stato non è sostituibile quando si tratta di affrontare crisi di ampie dimensioni. Sull’altro fronte, complementare, si è invece fatta strada l’esigenza di ripensare il rapporto tra economia e società in chiave di non subordinazione della seconda alla prima.
La pandemia ha provocato una serie di interventi impensabili nel passato, come il piano per la ripresa e resilienza (Next Generation EU), il meccanismo di salvaguardia dell’occupazione (SURE) e la sospensione del patto di stabilità. Tutte misure per il cui finanziamento l’Unione europea ha infranto il tabù del debito comune promuovendo una visione di politica economica condivisa. Dopo decenni di enfasi sull’allargamento del mercato unico e sulle politiche per la concorrenza un nuovo lessico ha cominciato ad affacciarsi nei palazzi della Commissione. Il riferimento alla dimensione sociale ha cominciato a uscire dagli stretti limiti di una visione che gli assegnava un ruolo marginale e comunque di competenza solo nazionale. Ed è in questo contesto che la Commissione è intervenuta per affermare l’importanza dell’economia sociale nelle proprie strategie di sviluppo, allargando lo sguardo fino a comprendere anche l’esistenza e la funzione di attività economiche non rivolte esclusivamente al profitto. Dalle imprese sociali e cooperative alle fondazioni, dalle mutue agli enti non profit, nel linguaggio delle autorità europee è entrato un concetto che tiene insieme tutte le forme in cui la società civile opera nella sfera economica per produrre beni di interesse generale. Si è venuta strutturando una visione secondo cui per lo sviluppo dei paesi europei è fondamentale anche una nozione (e una pratica) di impresa che non sia concepita soltanto come strumento per il profitto. Perché le conseguenze della teoria del primato degli investitori, in auge dagli anni ‘80, ha dimostrato di generare un livello di disuguaglianza e esclusione sociale che rischia di compromettere il disegno di unità europea.
In questa direzione, in pochi anni, da Bruxelles sono arrivati segnali molto chiari. Prima (2021) l’approvazione di un Piano di azione per l’economia sociale, di durata decennale e con relativi impegni finanziari sul bilancio UE. Poi il riconoscimento dell’economia sociale nell’ambito della Strategia industriale europea, promossa a specifico settore della strategia per una transizione sostenibile. Questi due atti implicano a loro volta una serie di impegni sul fronte dei finanziamenti, degli investimenti, dell’adeguamento normativo, degli interventi di capacity building e di formazione, della partecipazione alle politiche settoriali. Fino al ripensamento stesso delle regole che disciplinano gli aiuti di Stato e dei meccanismi che regolano le commesse pubbliche, in quanto il riconoscimento della specificità dell’economia sociale ne impone la revisione alla luce dei vincoli di non redistribuzione degli utili e della finalità orientata all’interesse generale. In altre parole, una profonda revisione dell’insieme delle politiche rivolte a organizzazioni che erano viste come marginali, e limitate a interventi di politica sociale, e che ora invece vengono scoperte per il valore che possono portare alle strategie europee a tutto campo, superando l’artificiosa distinzione tra ambito economico e sociale.
Proprio in queste settimane questa posizione della Commissione ha fatto un ulteriore passo in avanti. Nel Consiglio europeo di novembre è stata approvazione di una Raccomandazione che impegna tutti gli Stati membri a promuovere l’economia sociale a livello nazionale. Una raccomandazione – come è noto – non ha la forza normativa di una direttiva o un regolamento, ma comunque rappresenta un livello più alto di impegno perché pone le autorità europee nella condizione di monitorare i governi nazionali e pungolarli perché passino dalle parole ai fatti. Non si tratta più infatti soltanto delle scelte di Bruxelles, ma di un impegno che ricade su tutti i paesi membri. Con questo passaggio si chiude un ciclo, sotto la diretta responsabilità delle autorità europee, e se ne apre un altro che sollecita l’impegno dei governi nazionali. La Raccomandazione è stata approvata da tutti gli Stati dopo un lavoro che ha permesso di definire una cornice comune di riferimento per favorire politiche nazionali che tengano conto della eterogeneità dei contesti locali. L’Italia, forte di una presenza significativa di organizzazioni di economia sociale, ha contribuito dal basso a questo percorso e quindi è impegnata a dare seguito a questo indirizzo. I prossimi mesi mostreranno quanto convinta sia stata l’adesione italiana alla Raccomandazione. E si vedrà se le linee di azione proposte da Bruxelles troveranno un terreno accogliente tanto a livello di istituzioni pubbliche nazionali e regionali, quanto tra le organizzazioni che compongono il settore dell’economia sociale. Come già sta avvenendo a livello europeo, il riconoscimento istituzionale sarebbe ben poca cosa se non venisse accompagnato da una serie di azioni relative alle politiche di merito, alle misure finanziarie, agli strumenti di sostegno e promozione. Perché l’economia sociale venga presa sul serio è l’intero approccio che va ripensato. E questo richiede che iniziativa dal basso e dall’alto si incontrino.
In altri paesi, infatti, il processo di riconoscimento dell’economia sociale si è messo in movimento quando entrambi i mondi – quello pubblico e quello delle organizzazioni del settore – si sono resi disponibili a superare i tradizionali confini, tra di loro ma anche al loro interno, accettando di creare occasioni e infrastrutture di lavoro comune tra le diverse componenti. È così, ad esempio, che in Spagna il Cepes – il comitato che riunisce i diversi attori dell’economia sociale – è riuscito a influire sul processo legislativo ottenendo una legge che, già da dieci anni, riconosce il ruolo del settore. E sulla cui base è stato possibile che all’associazione di rappresentanza delle organizzazioni dell’economia sociale venisse riconosciuto il ruolo di autorità di gestione dei fondi europei destinati al settore, ottenendo un accesso diretto alle risorse di Next Generation e della programmazione europea 2021-27. O, anche, è in questo modo che l’economia sociale francese è riuscita nel corso del tempo ad ottenere che vi fosse un interlocutore politico di alto livello nel Governo, con il quale sviluppare strategie di sviluppo in una prospettiva sistemica.
La Raccomandazione del Consiglio europeo prevede che nei prossimi diciotto mesi gli stati membri provvedano a definire dei piani nazionali per promuovere coerenti politiche pubbliche di sostegno all’economia sociale. Se l’esperienza europea può insegnarci qualcosa, il processo va stimolato dal basso. La consapevolezza del ruolo dell’economia sociale non è sorta spontaneamente nelle istituzioni europee, e quindi anche a livello nazionale sono impensabili accelerazioni senza un impegno vigoroso da parte degli attori interessati. È richiesta una prova di maturità: il salto dalla difesa delle singole forme, organizzative e giuridiche, alla capacità di concepirsi come un insieme, fatto da componenti diverse ma con una visione comune del rapporto tra economia e società. È questa, anche in Italia, la strada da percorrere. Possibilmente senza perdere tempo.