Flaviano Zandonai, Open Innovation Manager - Consorzio Nazionale CGM

In cosa consiste, in termini generali, il carattere “industriale”? La rappresentazione che ruota intorno alla produzione seriale di oggetti materiali è ancora rilevante sia nei fatti che nell’immaginario, anche se è vero che nel corso degli anni si è diversificata, tanto che oggi far coincidere l’industriale con il manifatturiero è sempre più limitante. Ciò obbliga a ricercare elementi più profondi che sono rinvenibili non tanto a livello di sovrastruttura ma di modus operandi. Sostanziare quella che si potrebbe definire una “cultura industriale” potrebbe consentire anche alle imprese sociali di comprendere la portata dei mutamenti attesi per farla propria e al tempo stesso generare apprendimenti utili derivanti dalla sua adozione al fine di arricchirla.

Ecco quindi alcuni elementi caratterizzanti l’approccio industriale:

  • la ricerca di un rapporto il più possibile diretto con il consumatore del bene gestendolo all’interno del proprio sistema di offerta (meno intermediari possibili e approccio “a catalogo”);
  • l’utilizzo della tecnologia non solo come ausilio o supporto ma come componente intrinseca e caratterizzante della produzione e che quindi rappresenta la quasi esclusiva frontiera d’innovazione;
  • l’orientamento a superare vincoli di natura ambientale, anche nel caso in cui se ne riconoscono gli elementi di valore, al fine di proiettarsi verso aree vaste che coincidono con i propri mercati di sbocco;
  • la centralità del rapporto capitale / lavoro con una tendenziale prevalenza del primo sul secondo per sostenere investimenti di ampia portata, di lungo periodo e rischiosi che sono necessari per estendere la propria capacità produttiva.

Di fronte a questi, e probabilmente altri, criteri che definiscono la natura industriale si possono sollevare questioni di compatibilità rispetto al modello dell’impresa sociale, naturalmente non in termini formali ma sostanziali. L’impressione, da questo punto di vista, è che un percorso in tal senso sia già in atto, anche se forse procede secondo velocità differenziate e dunque non è facilmente rilevabile e soprattutto governabile. Esistono imprese sociali in grado di proporre sistemi di offerta “proprietari”, anche secondo modalità piuttosto articolate e complesse, all’interno dei quali costruire relazione con beneficiari che spesso sono anche clienti o cofinanziatori e che sono stimolati a codeterminare i contenuti della produzione. Al tempo stesso si notano investimenti sempre più consistenti in dotazioni tecnologiche che contribuiscono non solo a rafforzare l’offerta esistente ma a creare, soprattutto grazie alle risorse del digitale, inediti setting di servizio nei quali proporre nuove attività. E ancora pare ormai terminata, ormai da tempo, la fase del “piccolo è bello” lasciando comunque intravedere modalità di radicamento multi-locale nei territori e nelle comunità anche procedendo in senso top down. E infine la componente di capitale sembra crescere di rilevanza nei modelli d’impresa sociale per far fronte a investimenti che riguardano non solo le già citate tecnologie da introdurre nei propri ambiti di intervento in senso stretto, ma anche in modo crescente lo sviluppo di intere filiere, comunità e territori.

In sintesi, l’avvento di una possibile “era industriale” dell’impresa sociale sembra poter avvenire non del tutto a discapito di quegli elementi di “sartorialità artigianale” che ne hanno in gran parte caratterizzato l’operato e la narrazione negli ultimi decenni. Tutto ciò non solo per esigenze di mera coerenza rispetto alla propria missione di interesse generale, ma al contrario per sfidarla e dimostrare che può essere realizzata anche secondo diverse modalità e approcci.